19 August, 2009

L'acqua del mare è salata


Dormiamo sul pavimento. Abbiamo a disposizione due coperte a testa. Visto che fa caldo le mettiamo tutte e due sul cemento per farlo sembrare meno duro.
Intorno a noi un giardino con alberi di mango. Stiamo sotto il porticato della scuola, l’edificio è chiuso, non c’è l’hanno lasciato perché hanno paura che rubiamo i banchi e le sedie.
Su un lato del giardino c’è una pompa verde lunga dieci metri, la usiamo per lavarci la sera.
Mettiamo i ragazzini tutti in fila contro il muro, loro si insaponano e noi li sciacquiamo come fanno a Rambo quando finisce in prigione .
Ridono, si divertono come matti, c’è chi si lava tre volte di seguito.
Dormire sotto il portico è scomodo, ci sono le zanzare.
Fa caldo umido, non ci possiamo coprire perché le coperte sono di lana, non possiamo cacciare le zanzare perché sono molte più di noi.
La mattina non ci svegliamo perché in realtà non ci siamo mai addormentati.
Camminiamo in direzione del mare, non siamo tanto lontani. Ci sono dei palazzi di cemento bianco di venti piani a destra e a sinistra. I ricchi ci vengono in vacanza nel fine settimana. Ora sono deserti.
La spiaggia è piccola, ci lanciamo correndo verso l’acqua lasciando cadere sulla sabbia le borse, gli asciugamani e le magliette.
Il ragazzo che si chiama Elmer esce barcollando e sputando dall’acqua appena dopo esserne entrato. Ha la faccia contorta in una smorfia di disgusto.
Ci guarda con disprezzo.
-Ma che schifo, ha gusto di sale!>
Si mio caro, è l’oceano, l’acqua ha gusto di sale.
-Ma io credevo fosse come l’acqua del fiume…io qui non ci entro, mi fa schifo, andiamo in un’altra spiaggia.>
E no, mi spiace, qui è diverso, puoi cambiare tutte le spiagge che vuoi ma l’acqua saprà sempre gusto di sale.
Ci guarda incuriosito, non è convinto fino in fondo che gli stiamo dicendo la verità.
Si gira nuovamente verso il mare, gli altri ragazzi si stanno tuffando dentro a delle onde alte più di un metro.
Sembrano divertirsi, anche se l’acqua è salata.
Prendere o lasciare… ma ormai non ha più molti dubbi. Oggi ha imparato qualcosa di nuovo.

Cuciniamo della pasta con ketchup e maionese. E’ la nostra cena, non abbiamo altro.
Montiamo un piccolo fornello in un angolo riparato dal vento, abbiamo un pentolone di alluminio che dovrebbe bastare per tutti e 27.
L’acqua che esce dal rubinetto è salata così è già pronta per la pasta. Berla invece non ci piace proprio, ma conserviamo delle bustine di succo alla fragola in polvere dolcissimo che sistemano tutto.
I ragazzini muoiono di fame. Nel giardino ci sono delle quantità di manghi caduti gialli e buonissimi su cui ci avventiamo.
Qualcuno è marcio e finisce spiaccicato sulla faccia di qualcun altro.
Tutti si mettono in fila dietro al pentolone, ho un mestolo da minestra che è perfetto per gli spaghetti incollati. Sono buonissimi.

I ragazzini fanno finta di dormire, li abbiamo minacciati di non portarli a fare il bagno il giorno seguente. Si sono tutti bruciati le spalle e qualcuno si lamenta.
I più piccoli si sono messi in 3 per amaca, uno sopra l’altro. Facce e piedi si mischiano sotto il lenzuolo e non si riesce a capire di chi siano.
Noi decidiamo che è arrivata l’ora di fare una passeggiata, si è alzato un leggero venticello e il bar due vie più su sembra discretamente affollato da pescatori in ciabatte.
Beviamo una birra fredda, poi un’altra e poi un’altra ancora.
Ed è quasi mattina.

20 July, 2009

A caccia dell’anaconda


Il Toyota Land Cruiser percorre gli ultimi 100 metri di strada tra buche fangose. La via di comunicazione è stata costruita su un terrapieno per impedirle di essere sommersa dall’acqua durante le piogge, ma la scarsa manutenzione degli ultimi anni si sta facendo sentire.
Lui ci accoglie con un tatuaggio di tigre sul bicipite sinistro. Non è molto alto, ma ha il corpo tozzo e muscoloso. Abbronzato dalle molte ore passate all’aperto, porta un cappello a tesa larga fatto, come ci spiega orgoglioso, di “fibre vegetali indistruttibili”. Gli è stato regalato 15 anni fa e, nonostante non sia mai stato lavato, fa ancora la sua porca figura.
Indossa dei jeans strappati sporchi di fango, un paio di scarpe di tela artigianali e un coltello di 40 centimetri. E’ tutto quello che gli serve.
Ne va molto orgoglioso, è un’arma non troppo lunga (40cm??), facile da maneggiare ma nel contempo abbastanza pesante da permetterti di trapassare la pelle di un coccodrillo, caso mai ce ne fosse bisogno.
Lo guarda come fosse suo figlio, probabilmente sta pensando a quante avventure hanno passato insieme. Dice che oggetti del genere non si trovano in giro, è possibile acquistarli solo nei mercati contadini delle sterminate pianure venezuelane.
Me lo fa tenere in mano un momento, c’è scritto “Made in Japan”.

L’accampamento dove alloggiamo è formato da due edifici in muratura più il recinto per i cavalli. La stanza degli ospiti è composta da 4 pareti con un tetto in lamiera e 6 amache. C’è anche la luce elettrica, hanno installato da poco un impianto di pannelli fotovoltaici grazie ad un progetto finanziato dallo stato.
Per cena hanno ammazzato un maiale e ora sta girando sullo spiedo spandendo un profumo di carne arrosto che si sente per chilometri.

Lui, il personaggio del coltello, si chiama Tony Martin. Ha iniziato a fare da guida nello Llano ( un territorio praticamente disabitato grande quanto l’Italia) quasi 20 anni fa.
Tanto per capirci è il tipo di persona che si butta nella notte dalla jeep in corsa, sparisce nella vegetazione e dopo 5 minuti torna con in mano un piccolo caimano lungo un metro.
Giura che il giorno prima un tipo a detto ad un altro che poi ha parlato con un amico che l’ha detto alla sorella che sta insieme al cognato del panettiere che ha venduto il cavallo al figlio del proprietario dell’accampamento che ha visto un’anaconda di 7 metri a pochi chilometri dalla casa di un tipo che lui conosce. Anzi, che tutti conoscono. Mi sono perso un passaggio probabilmente.
Comunque, fatto sta che, nonostante sia fortemente sconsigliato da tutti per le condizioni del terreno, dobbiamo assolutamente andare a scovare l’animale.
Partiamo aggrappati al tetto del Land Cruiser, ci sono 30 centimetri di pantano, ma Josè sembra fare miracoli con il mezzo. Sbandiamo un centinaio di volte, sembra di fare rafting, ma finalmente arriviamo sul luogo dell’avvistamento.
E’ una specie di enorme lago circondato da alberi bassi. Il posto è bellissimo, un branco di capibara, un animale che assomiglia ad un topo ma è grande quanto un maiale, si immerge nell’acqua scomparendo tra le mangrovie.
E’ ormai quasi il tramonto e l’orizzonte si colora di rosso fuoco.
Tony si arma di un lungo bastone e inizia a immergerlo nell’acqua con regolarità. L’anaconda si nasconde sul fondale perché in questo periodo dell’anno sta per partorire i piccoli anacondini.
Dopo circa 30 minuti di infruttuose ricerche un urlo si alza sovrumano dalle tenebre.
Il personaggio si sbraccia, sembra che questa volta abbia trovato qualcosa di grosso. A pochi metri dalla riva si intravede un’ombra scura e qualcosa che assomiglia ad una testa spunta dall’acqua. Ci avviciniamo senza fare rumore.
Eccola li, maestosa come non mai, l’anaconda.
E invece no, era semplicemente una pietra. Cavolo.

02 July, 2009

Insetti


E’ una lotta impari.
Loro si nascondono tra le pieghe delle tende.
E tu no.
Loro si riproducono ogni settimana a decine anzi centinaia.
E tu no. (meno male)
Loro mangiano la spazzatura.
E tu no.
E questo è un vantaggio mica da niente! Con tutta la spazzatura che c’è al mondo hanno trovato il perfetto sistema per sopravvivere per sempre.

Non c’è un termine preciso per tradurre la parola “cucaracha”. Si potrebbe usare “scarafaggio”, ma non sarebbe la stessa cosa.
La cucaracha e grossa e ha tanta fame. Raggiunge i 5 cm senza grossi problemi e si scofana 5 o 6 crocchette del cane in mezz’ora. Sarebbe come una persona si mangiasse un vitello in 20 minuti.
Il cane ha una paura folle. Si chiama Nube ed è un barboncino bianco sporco.
Sporco perché è sporco, non perché bianco sporco sia il suo colore. Normalmente è solo bianco.
Se lo senti che ringhia e abbaia vuol dire che sta lottando contro una cucaracha che gli frega le crocchette.
Sono crocchette a forma di osso, tutte colorate. Gli scarafaggi ne vanno matti.
Allora lui ringhia e abbaia, ma mica si avvicina.
Paura, eh?
Si, si, paura folle.
Allora l’insettone muove le antenne come se niente fosse, tasta il terreno, corre un po’ qua e po’ là e poi si lancia nella ciotola azzurra.
Mangia che è un piacere, divora tutto e finito il pasto corre sprezzante sotto il frigorifero, dove abita e tiene famiglia.

Qui fa sempre caldo e quindi le casa sono tutte bucate. Le finestre raramente si chiudono e quando si chiudono normalmente sono senza vetri.
Quindi ci entra un po’ di tutto, si vive in comunità con la fauna locale, si condivide il tetto con chi ha meno possibilità di noi.
Con l’inizio della stagione delle piogge è successo che le tarme del legno volanti si siano trovate senza un luogo adatto in cui riprodursi. Ed è con commozione per tanta fiducia nei miei confronti che ho scoperto che la loro scelta è caduta sul mio armadio.
Allora, questi esseri funzionano così: nascono che hanno le alette e si mettono a volare in circolo insistentemente senza che uno riesca ad acchiapparle. Poi dopo un paio di giorni perdono le alette e si trasformano in vermi striscianti.
Il contrario delle farfalle.
A questo punto il verme cerca del legno da mangiare, fa crollare un ripiano o due, caga le uova e tutto ricomincia da capo.
Avevo la stanza piena di vermi.
Prima di andare a dormire mi trovavo quindi impegnato in una battuta di caccia al verme. Perché a questi gli piacciono le pieghe del lenzuolo, oltretutto. Sono stato costretto, per più giorni consecutivi, a commettere tra i 10 ed i 15 omicidi premeditati e senza pentimento prima di andare a dormire. E non bastando la pulizia etnica capitava spesso la notte di sentire una presenza, sul braccio o sul naso, insistentemente impegnata ad interrompere i miei bellissimi sogni.

In questi casi ci manca poco che uno raggiunga la pazzia, dopo un po’ si vedono insetti ovunque, anche dove non ci sono. AHHHHHHHHHHH.
E allora sono passato alle maniere forti. Sterminio di massa dunque.
Sono sceso in giardino e ho catturato un paio di ragni. Li ho messi quindi dentro l’armadio in un angolo tranquillo.
Dopo un paio di giorni è iniziata la strage. Io non so come abbiano fatto, fatto sta che hanno chiamato gli amici e hanno iniziato a costruire ragnatele enormi. Questi poveri vermi volanti non hanno avuto scampo. Nel giro di una settimana sono morti tutti. Un olocausto.
Non li ho più tolti i ragni.
Da quel momento non ho mai più avuto problemi con le zanzare la notte.
Sono completamente sparite, neanche una da settimane.
I ragni in compenso sono sempre più grossi.
Ho creato un ecosistema.

25 May, 2009

Ragazzo, non sprecare l'acqua.


Siamo ufficialmente nella stagione delle piogge. Questo significa che, al posto di una pioggia debole e persistente che dura dalla 5 del pomeriggio alle 5 del mattino come succedeva nella stagione secca(?), ora scoppiano degli acquazzoni tremendi e improvvisi con tuoni e lampi che trasformano le strade in fiumi e i fiumi in mari.
Non ci rimane che nuotare…
Per rendere le cose più interessanti a Merida inoltre ci sono problemi di approvvigionamento idrico.
Se non piove per due settimane l’acqua inizia a mancare, se però piove per più di tre giorni consecutivi inizia a mancare lo stesso perché c’è né troppa.
Qualche giorno fa sono esplose le condutture principali che dalla montagna distribuiscono l’acqua a tutta la città. Sono due enormi tubi in ferro arrugginito che scendono da una laguna poco sopra i 3000 metri d’altitudine. Passano attraverso una piantagione di caffè, un campo di banani abbandonati, la facoltà di agraria e un rivenditore di gomme per auto. E poi spariscono nel sottosuolo e nessuno sa bene dove vadano a finire.
Fatto sta che è abbastanza normale svegliarsi la mattina e scoprire che manca l’acqua. Succede spesso, ma le case sono tutte dotate di serbatoi sul tetto che garantiscono un minimo di sicurezza. Sono i classici bidoni blu che, insieme alle parabole, sono così caratteristici dei tetti delle favelas in tutta l’America Latina.
Qualche giorno fa però, avvisano alla radio che l’acqua sarebbe mancata per 3 giorni. E però 3 giorni iniziano a diventare un problema. Soprattutto se ti colgono così alla sprovvista.
Allora succede che non ci si possa più lavare e non si possa più cucinare la pasta.
In realtà ci si rende conto che il problema più grande è il bagno. Provate a non poter tirare l’acqua per 3 giorni nella vostra bella toilette profumata con le piastrelle azzurre! E provate a pensare a cosa succede in una scuola di 150 bambini che devono passare li 8 ore al giorno... e poi ci sono gli ospedali, gli uffici pubblici, i ristoranti. Se manca l’acqua tutto si paralizza in un istante. E’ quasi peggio dell’elettricità.
Li ci sono i generatori, le candele, e quando fa buio si va a dormire, ma l’acqua è una tragedia.
Dopo il primo giorno hanno chiuso tutte le scuole. Poi è toccato a tutti gli altri. La città si è fermata completamente.
E la gente ha iniziato ad andare al fiume con secchi e bacinelle.
Sembrava di essere tornati indietro nel tempo.
Di fronte alla Funcacion scende una specie di ruscello che normalmente è intubato e passa sotto la strada. Dei ragazzi hanno smontato il tubo in cinque minuti, aggiunto un pezzo di guaina e, detto fatto, hanno allestito una stupenda doccia all’aperto con pura acqua gelata di montagna.
Una festa.
La padrona della casa in cui vivo è invece sconvolta. Ha una vestaglia a fiorellini e delle ciabatte pelose azzurro sexy. Se ne va da una stanza all’altra senza meta borbottando frasi senza senso. E’ dalle 5 del mattino che va avanti e indietro dalla strada con un secchio verde per portare acqua in casa.
Ha deciso che oggi deve fare la lavatrice e un cambio di programma di tale portata, quale sarebbe un rinvio, non è concretamente accettabile dalla sua mente di casalinga.
E’ riuscita a riempire una lavatrice a secchiate! A me non sarebbe mai venuto in mente.
Ma c’è un altro problema che le sta creando un esaurimento nervoso.
Stanno per arrivare le sue amiche e nel lavandino della cucina ci sono dei piatti sporchi che non riuscirà a lavare in tempo.
Chissà mai cosa penseranno, come minimo che in questa casa ci vivono dei maiali.
Questione di punti di vista.

22 April, 2009

La radio, il pastore e la mula Maria


Sono le 5.45 del mattino e il gallo canta da almeno mezz’ora.
Ualter (non è un errore, è il suo nome) è ancora un po’ alticcio, ha passato la sera prima bevendo vino di mora acido e rum della peggior specie con i compari giù in piazza.
Ha un mal di testa di quelli che pare di essere stati presi a calci da un mulo infuriato.
Si versa una tazza di zuppa di pollo con un paio di verdure galleggianti e la guarda pensieroso. Certo che è stato proprio un fesso ad accettare il primo turno del sabato mattina.
Al momento di scegliere lui è stato uno dei pochi a farsi avanti. Forse per senso del dovere, forse per farsi notare dal dirigente locale del Partito.
Ma ormai è tardi per lamentarsi e non può proprio mancare all’appuntamento.
Si infila un paio di Rayban tarocchi ma ben fatti, una giacca di pelle e stivali di gomma marroni.
Esce di casa chiudendo la porta con un calcio e giù per la via ripida lastricata di pietre.
Il paese è già in movimento, un paio di asini stanno risalendo la via carichi di sacchi di farina di mais. Ualter scarta un paio di galline e un tacchino obeso, saluta una vecchia, il prete e il proprietario della bottega affianco al telefono pubblico.
Attraversare la via principale di un paese con 90 abitanti non è mai stato facile per nessuno. Soprattutto se in quel paese ci sei nato.
Ma ora silenzio, si inizia…
“Gentili ascoltatori, oggi è il 20 di aprile e ancora buon giorno dalla radio comunitaria di Los Nevados!”
Gli scappa il microfono di mano e la voce si allontana per un istante.
“VI ricordiamo che questa emittente è stata creata e finanziata dal Ministerio del Poder Popular per le Telecomunicazioni della Repubblica Bolivariana del Venezuela e come sempre iniziamo le nostre trasmissioni giornaliere con il nostro inno nazionale – Gloria al Bravo Pueblo”.
Ualter già non c’è la fa più, vorrebbe tornarsene a casa, ma gli toccano sei ore di diretta.
La zuppa di pollo non sta dando gli effetti sperati, questa volta sarebbe dovuto passare direttamente al succo di Papaya misto a uovo e caffè.
Ma dai, dai, dai!!! Anche oggi gli toccherà portare a casa il 100% di share visto che è l’unica emittente nel raggio di 150 chilometri.
Radio Los Nevados è stata creata 6 mesi fa nell’ambito di un progetto di sviluppo delle comunità montane isolate dal mondo. Serve una vasta area delle Ande nella parte sud occidentale del Venezuela dove sono presenti più di cinquanta villaggi contadini.
A Los Nevados ci sono 10 case e una chiesa. Si raggiunge con un comodo viaggio di 4 ore a dorso di mula. La strada è ripida, piena di buche e a picco su un precipizio interrotto solo da cactus e generici arbusti spinosi.
La mula poi ti fa penare perché a metà della salita si ferma e aspetta un segno divino per ripartire. Se sei fortunato il segno arriva dopo un quarto d’ora, altrimenti ti arrangi.
La mula poi alla fine della salita ha fame e sete. E se trova erba e acqua di nuovo ti arrangi perché non la scolli più per un altro quarto d’ora.
Ricordo che Bud Spencer nel film “Continuavano a chiamarlo Trinità” parlava nell’orecchio ai muli e questi partivano come treni salvando tutti quelli che c’erano da salvare. La mia mula invece mi guarda piena di compassione e scuote la testa. Mi spiegano per colpa dell’accento italiano.
Io, Nastassjja ed un paio di cooperanti lituani che non brillano certo per loquacità arriviamo in paese in tarda mattinata. Che dolore alle chiappe.
Il nostro amico Ualter, pastore di professione e deejay freelance, ha intanto lasciato il testimone alla lavandaia Yasmirla, la quale sta leggendo il notiziario di mezzogiorno arrivato per fax direttamente dalla sede di Caracas del Partito.
Lo hanno avvisato del nostro arrivo, ci offre un bicchiere di Coca Cola socialista e si offre gentilmente di farci da cicerone.
Nel paese gode di fama indiscussa, due ragazzine adolescenti gli corrono incontro appena lo vedono.
Sembra proprio che si sia fatto dei fans!

25 March, 2009

Battaglie


Ramirez si gira verso destra, poi verso sinistra, basso sulle gambe, si guarda intorno circospetto.
Come un gladiatore nell’arena in attesa di essere attaccato da una bestia feroce ha tutti i sensi in allerta, non si fa scappare niente di quello che succede intorno a lui.
Gli occhi neri da lupo brillano nella notte, anche se è giorno.
La ciabatta rosso fuoco raschia sulla superficie di cemento.
Ne ha una sola, l’altra gli è stata rubata, ma è fermamente deciso a riprendersela.
A qualunque costo.
Non avrebbe mai pensato di arrivare fino a questo punto, ma gli eventi alle volte non si controllano, semplicemente ci sfuggono di mano.
Anche a Ramirez sono sfuggiti di mano, e la situazione in cui si è venuto a trovare lascia aperte ben poche possibilità.
Perire arrendendosi o perire combattendo, questo è l’interrogativo.
Perché sempre di perire si tratta quando sei solo contro cinque energumeni armati di scope.
Ma lui è stato addestrato a questo, sa perfettamente a cosa va incontro.
Sei anni passati in Fundacion Don Bosco ti cambiano dentro, nella testa, ti insegnano ad diventare un guerriero.

Indietreggia lentamente, senza perdere d’occhio i suoi avversari.
Si avvicina alla porta del bagno, passo dopo passo, ha un piano in mente, un’ancora di salvezza che forse potrebbe fargli guadagnare un po’ di tempo.
Accenna ad un sorriso, una sorta di ghigno furbesco, di sfida, si sta rendendo conto che non tutto è perduto.

Gli attaccanti sbraitano e ridono, si sentono superiori, i due più grossi fanno roteare le scope sopra la testa.
Daniel, il più basso, fa schioccare sul pavimento un asciugamano da doccia azzurro alzando tutto intorno nuvole di polvere.
José, intanto, minaccia con un cestino della spazzatura pieno di carta igienica sporca di cacca.
Arma biologica di distruzione di massa, non coperta tra l’altro dall’assicurazione del Servizio Civile, svelto mi sposto un po’ in disparte.
Antor lo zoppo ha recuperato chissà dove un ramo verde con annessa foglia di banana e lo maneggia come un fioretto. Farebbe tremare le gambe a Dartagnan.

I cinque sono decisi a chiudere la questione in fretta, hanno giocato abbastanza con la loro preda.
Incalzano Ramirez con i manici di scopa, se riescono a spingerlo nel bagno per lui è finita.
Improvvisamente urla sguaiate si alzano dal gruppo, la furia del combattimento cancella ogni parvenza di umanità, asciugamani, spazzoloni e foglie di banana si confondono nel guazzabuglio di corpi.
Ramirez come un felino salta oltre la soglia del bagno, sa che ha lasciato qualcosa per terra dopo aver finito le pulizie giornaliere.
Seconda porta a destra, sbatte contro il metallo nero, scivola sul pavimento bagnato, gli altri gli sono addosso.
Con un calcio al ginocchio fa capitolare il grosso Richard, riesce ad allungare la mano, basta solo un poco di più…
Un ruggito animalesco fa tremare il tetto di lamiera.
Colti dal panico i cinque aggressori si scavalcano pestandosi per cercare salvezza all’esterno della stanza.
Ramirez è riuscito a mettere le mani sull’unica arma capace di sconfiggere un esercito intero senza alcuna fatica.
Lo straccio sporco con cui ha pulito i gabinetti.

La battaglia ora è finita, l’aria fresca spazza via l’odore del combattimento.
Sul terreno per oggi non rimangono corpi, solo le armi abbandonate dai contendenti.
Si è profilato un nemico peggiore all’orizzonte e bisogna unire le forze per contrastarlo.
Ha varcato la soglia il maestro di matematica.

11 March, 2009

Rotta al Salto Angel

Sono le 7 di sera e il terminal degli autobus di Merida è affollato come al solito. Questa volta però è anche pieno di tedeschi con lo zaino in spalla e i sandali con le calze.
Io Taiko e Sara siamo diretti a Ciudad Bolivar, nella parte orientale del paese, per andare a fare conoscenza con il Salto Angel, la cascata più alta del mondo, e per passare un paio di giorni a grattarsi i piedi sotto le palme nel ridente paesello di Santa Fe.
Sono circa 26 ore di viaggio in autobus, ma questa volta ho caricato il l’iPod, mi sono lavato i denti prima di uscire di casa e ho portato la copertina per combattere contro l’aria condizionata.
Parto fiducioso
Dopo circa 10 minuti di viaggio la giapponese inizia ad annaspare tra i sacchetti di plastica sotto i sedili.
Ne viene fuori che grazie alla ferrea organizzazione nipponica a cui è stata abituata fin da bambina ci ha preparato la cena.
Apro il contenitore di alluminio e ci scopro, in sequenza, riso, verdurine e tocchetti di pollo arrosto.
Ancora caldi.
Nella busta ci ha messo il tovagliolo, la forchetta e il coltello. E poi la torta allo yogurt.
Un indescrivibile odore di cipolla inizia a espandersi tra i sedili. Il primo commento mi arriva dalla mia vicina di sinistra. Poi si volta quello davanti a vedere che succede, poi quello lontano due sedili, ciccione, inizia a far battute interessate in cui ci chiede se ce ne cresce un po’anche per lui.
No, è mio! La prossima volta conosciti il tuo giapponese personale.

Arrivati a Ciutad Bolivar bisogna prendere un aereo. Canaima, l’accampamento di indigeni dove siamo diretti, è in mezzo alla selva e non ci sono strade.
Il diligente addetto al controllo bagagli mi fa notare che nello zaino ho due coltelli, di cui uno a forma di machete, e uno spray infiammabile, che la legge internazionale proibisce di portare a bordo.
Io gli faccio notare che siamo in culo al Venezuela e che il tutto è nel bagaglio da imbarcare nella stiva, come mi hanno sempre insegnato a fare.
E lui a sua volta mi fa notare che il trabiccolo su cui sto per salire non è dotato di stiva.
Ah.
Però se proprio voglio lui può dare tutto al pilota che li mette in una cassaforte e poi me li ridà una volta arrivati.
Ah.
Però il pilota, ancora prima di salire a bordo, mi chiede qual è il mio zaino e ci rimette tutto dentro.
Ah.

L’aereo è un Cessna a 6 posti dotato di una poderosa elica a pedali. Il pilota è un tipo simpatico e parla in continuazione. Gesticola per sovrastare il rumore del motore e a ogni sbracciata lascia il timone e l’aereo si sbilancia verso destra.
Sono esperienze che segnano.
Dopo un’ora di viaggio atterriamo malfermi su una pista di terra battuta. L’aeroporto è una capanna con il tetto di frasche un po’ più grande delle altre.
Un ragazzetto ci corre incontro con un casco di banane.
Ci aspettano 4 ore in canoa, ma il tempo è bello e non ci sono neanche troppe zanzare.
Il mezzo è stato costruito scavando un unico troco di un unico, immenso, albero tropicale. Seduti comodi ci stiamo in 8 più la guida che si chiama Churum e gli zaini.
Il fiume è largo e l’acqua azzurro cielo. Tutto intorno l’immensa foresta tropicale è interrotta solo da delle gigantesche formazioni rocciose, lunghe fino a 50 chilometri, caratteristiche di questa zona: i tepui.
E proprio da questi altopiani che si formano le numerosissime cascate che si possono vedere lungo il tragitto. Le pareti rocciose scendono a picco per centinaia di metri senza incontrare ostacoli e senza la presenza di vegetazione.
Tutta l’area è percorsa da una serie di corsi d’acqua che si intersecano tra loro e sono da sempre stati utilizzati dalle popolazioni indegene come vie di comunicazione tra i villaggi.

Questo è il periodo secco, ma il cambiamento climatico si fa sentire anche qui. Churum ci dice che è la prima volta da quando è nato che si riesce a risalire il fiume nel mese di febbraio.
Vabbé che ha solo una ventina d’anni, però fa impressione lo stesso.
Continuando la risalita il percorso diventa più tortuoso e iniziano a vedersi qua e là dei grossi massi sotto il pelo dell’acqua.
Superiamo tutta una serie di rapide, il guido fa miracoli, noi ci laviamo fino alle mutande ma siamo felici come bambini a Gardaland.
Improvvisamente la canoa si mette di traverso. L’acqua inizia ad entrare dai fianchi, mi volto per cercare la guida e la vedo immersa nel fiume fino alle spalle che tenta di raddrizzare il mezzo.
Dopo 30 secondi di sforzi vani capisce che non ce la può fare.
Tutti giù a spingere!
Lascio la macchina foto a Sara e mi butto in acqua con gli altri ragazzi.
Con la nostra forza bruta lottiamo contro la corrente impetuosa.
3…2…1…spingere!!!!!!!
Niente di niente, siamo incagliati con i fiocchi questa volta. O forse il problema è la nostra forza bruta…
Riproviamo e riproviamo, già inizio a pensare a cosa posso salvare dallo zaino prima che il fiume se lo porti via per sempre.
Ci sarebbero quelle mutande a quadretti…..
Improvvisamente da dietro un’ansa spunta un’altra canoa, ci vede e fa rotta verso di noi.
Saltano tutti giù per aiutarci, la solidarietà fluviale, agguantiamo l’imbarcazione e….vai che si muove!
Anche per questa volta le mutande sono salve.
Arriviamo a riva stanchi morti, ma la Churum come per magia tira fuori una cassa di birra da sotto un telo.
Ahhhhhhhhh, che soddisfazione.
Dopo poco ripartiamo. Un’altra ora di navigazione, un paio a piedi, e...
…937 metri di caduta libera.
Il Salto Angel, la cascata più alta del mondo.
L’acqua è fredda, ma un bel bagno non me lo toglie nessuno.

06 February, 2009

Road to Machu Picchu 2


Per raggiungere il paese di Agua Caliente, da dove inizia un’altra scalinata Inca per salire al Machu Picchu, non ci sono strade. O ci arrivi col treno o ci arrivi camminando sui binari come un treno.
Il taxi sgangherato ci scarica di fronte alla centrale idroelettrica. Un tempo orgoglio della valle ora è un ammasso di lamiere con un paio di guardie armate che ci girano intorno fumando sigarette per passare il tempo.
Da quel punto partono i binari abbandonati di quella che una volta era la ferrovia che arrivava fino al paese di Santa Teresa. Costruita niente di meno che con il contributo del National Geographic, quando il mondo era ancora esplorato da gentiluomini inglesi con il cappello rotondo, alcuni anni fa è stata in parte distrutta da un’alluvione e non più ricostruita.
Partiamo quindi seguendo la ferrovia che si addentra nella foresta. E’ quasi sera e siamo praticamente gli ultimi. Dietro di noi c’è solo un gruppetto di tedeschi che tentano di far funzionare due casse per l’I-Pod a batterie perché senza la tecno proprio non possono stare.
Il cammino è abbastanza agevole, si passeggia sulle traversine di legno che uniscono i due binari, e il panorama è bellissimo.

Sembra di essere nel Borneo o qualche posto simile. Tutto intorno a noi delle montagne altissime coperte di vegetazione, con le nebbie serali che piano piano stanno salendo verso la cima.
L’unico problema è che in effetti si sta facendo sera e il cammino non è particolarmente illuminato.
Intanto è sparito anche il gruppo di tedeschi, ma incrociamo un ragazzo che sta tornando indietro solo e mezzo zoppo.
-Salve buonuomo, quanto manca al paese?
-Due ore e mezza, non di più...

EHHHH???? Ma se stiamo già camminando già da due ore! Niente, mi sa che il taxista ha accorciato un po’ i tempi nelle sue indicazioni.
Il problema di camminare su una rotaia abbandonata quando fa buio è dato in particolare da quella specie di ghiaia a pietre grosse che viene messa tra i binari. Le classiche pietre da ferrovia. Che però, essendo abbandonata, un po’ ci sono e un po’ no. Così tu cammini dove ci sono e poi, puff, ti ritrovi in un buco di 20 centimetri dove non ci sono.
Ma niente paura!
Al mercato del tarocco di Cuzco ho comprato una lampada frontale cinese a led potentissimi stile faro. E la confezione giura che le batterie dura 120 ore! Questa si chiama “soluzione”.
Che non si accende…
Cinesi, mi han già fregato una volta…
…e invece no! Magicamente la valle intera viene illuminata da un fascio di luce divino che splende nella notte. Bastava colpirla con leggera violenza e il gioco era fatto.
Io guido la spedizione, Federico anche lui cià un piletta, ma è una patacca di quelle che si ricaricano a manovella e la luce non arriva alla punta dei piedi. Carla intanto sta cantando canzoni della vecchia tradizione italiana per non pensare alla morte incombente.
Ormai è buio buio, ma non buio che si vede qualcosa, proprio buio che non si vede niente. Ma noi si continua impavidi, manca una manciata di chilometri, o almeno si spera.
E poi si mette a piovere.
Ma non pioggerella pioggerella, pioggia tropicale! Di quella che dopo trenta secondi ha già modificato la configurazione orografica del territorio, creato un nuovo fiume e fatto franare tre montagne.
Intanto il rumore del fiume che scorre accanto alla ferrovia aumenta da sussurro a rombo tremebondo.
Dopo mezz’ora siamo zuppi fradici, e ormai, dopo quasi quattro ore di cammino e un viaggio di 12 ore, anche un po’ stanchi. Carla sta finendo il repertorio dei classici della canzone italiana, passiamo a “Il triangolo no” e “Funcky Tarro” per tirarci su il morale.
Un buco buio appare davanti a noi. E’ una galleria. Sono le 8 e ciò anche un po’ fame, ci dividiamo quindi un pacchetto di ritz alla crema al formaggio sbriciolati. E poi una manciata di foglie di coca da masticare.
Dopo qualche minuto ripartiamo, passiamo davanti ad una stazione abbandonata stile paese fantasma nel Far West.
E poi, girata la curva, scostato il ramo, superato il dirupo e guadato il ruscello…
…una luce!
Dal nulla compare la prima casa del paese. E’ un albergo di lusso con la sauna e la Jacuzzi nei bagni.
Ma si può? Ma almeno una baracca di legno, una cosa un po’ più consona al paesaggio, due vecchi che mangiano la zuppa di gallina…
E invece siamo arrivati in un specie di Las Vegas piena di lucine, ristoranti, alberghi e turisti biondi con i pile North Face.
Andiamo a contrattare il prezzo di una pizza al prosciutto e patatine fritte.

29 January, 2009

Road to Machu Picchu 1


Cuzco si trova nella parte più meridionale del Perù. La zona e’ montagnosa, quasi tutta sopra i 3000 metri, ma data la vicinanza con il tropico non si nota particolarmente. Era l’antica capitale degli Inca e fortunatamente un discreto numero di costruzioni sono sopravvissute al saccheggio dei conquistadares.
I dintorni della città hanno una particolarità: se ci sono più di quattro pietre ammucchiate si e’ per certo di fronte ad una rovina Inca. Se le pietre sono dieci o più stiamo già ammirando un sito protetto dall’Unesco e di valore inestimabile.
Certo è che i pastori locali hanno delle tecniche costruttive di muretti che molto si avvicinano a quelle Inca…
Alle 8 del mattino stiamo già contrattando il prezzo del biglietto con l’autista del minibus.
Il posto è affollato, c’è odore di pannocchia arrostita. In molti paesi del Sud America i treni praticamente non esistono ed i terminal degli autobus sono come delle enormi stazioni dove si concentra la quasi totalità dei viaggiatori.
Il furgone avrebbe 7 posti e ovviamente siamo in 10. I miei vicini si compongono di una mamma cicciona, la figlia obesa ed il fratello sovrappeso. Faccio un po’ troppo contatto con il finestrino, ma tutto sommato è sopportabile.
Siamo diretti a Santa Maria, prima tappa per arrivare al Machu Picchu, una delle 7 meraviglie del mondo e meta principale del nostro viaggio. Potevamo prendere il treno, la linea Cuzco – Machu Picchu è una delle due esistenti in Perù, ma è esageratamente turistico e per 3 ore di tragitto ti chiedono 60 dollari.
Così, da bravi esploratori, decidiamo per l’avventura.
Il tempo è variabile, la notte ha piovuto, ma filtra qualche raggio di sole e le campagne collinose del Perù ricordano la Svizzera.
Ci sono anche le mucche.
L’unica differenza sono i mattoni di fango ed i tetti di lamiera con cui sono costruite le case.
L’autista decide che è meglio prendere una scorciatoia su per una strada di fango, ma dopo 50 metri il furgone di mette per traverso e allora perspicacemente capisce che finchè c’è una strada asfaltata forse non è così male usarla.
La via si inerpica su per un massiccio roccioso, siamo scesi a 1800 metri e dobbiamo tornare a 4000 per valicare la montagna. Poco a poco che si sale l’aria si fa più rarefatta e la difficoltà a respirare si sente, ma dopo le scalinate percorse nei dintorni del lago Titicaca questa è una frivolezza da femminucce.
La strada si fa sempre più stretta, inizia a comparire la nebbia e come al solito si corre sul ciglio di uno strapiombo senza protezioni. Ogni tanto incrociamo una frana, si fa lo slalom in mezzo ai pietroni e poi si riparte. Se la frana non chiude completamente la strada non si vede il motivo di ripulirla. Dopo alcuni anni ci crescono sopra le piante e diventa parte del paesaggio.
Ricominciamo a scendere e come per magia rispuntano le piante di banane. L’asfalto finisce e le ultime due ore sono una gara con un pick-up locale a chi prende le buche più profonde.

Arrivati nel paesello di Santa Maria, trenta anime e la sagra del mango, saliamo su un pulmino ancora più scassato e con ancora più gente di prima in direzione di Santa Teresa. Dietro di me è seduta una australiana che maledice il giorno in cui ha deciso di fare un viaggio no alpitour e passa il tempo a spalmarsi strati di crema solare di quella che ti lascia il naso bianco per tre giorni.
Altre due ore, altre gare di buche, altre strade polverose. Anche qui il terreno frana praticamente ogni anno portandosi letteralmente via la strada. E quindi ci sono un paio di ruspe che tutto l’anno si occupano di ridarle una forma e che ci bloccano per un tempo indefinito. Proprio oggi dovevano ridarele la forma!
Il famosissimo paese di Santa Teresa è composto da un agglomerato di baracche nel mezzo di una piantagione di banane. Il furgone non va più avanti di così, ma abbiamo visto le foto delle acque termali che ci sono da queste parti e si ricontratta con un taxi per farci portare. Nel bel mezzo della giungla, a kilometri dal primo centro abitato, tale taxi viene fermato da una pattuglia della polizia in moto e gli viene fatta una multa perché l’autista non aveva la cintura di sicurezza...
E’ la prima volta dopo mesi, e proprio qui nel mezzo del nulla, che vedo la polizia fare una ricevuta per il pagamento. Una ricevuta! Manco una tangentina!!! Ma dove siamo finiti…


…nella piscina di acqua calda termale più grande che abbia mai visto! E ci sono anche le cascatelle.
Ci voleva proprio.
Purtroppo ancora non sapevamo cosa ci avrebbe aspettato nelle 5 ore seguenti.