25 March, 2009

Battaglie


Ramirez si gira verso destra, poi verso sinistra, basso sulle gambe, si guarda intorno circospetto.
Come un gladiatore nell’arena in attesa di essere attaccato da una bestia feroce ha tutti i sensi in allerta, non si fa scappare niente di quello che succede intorno a lui.
Gli occhi neri da lupo brillano nella notte, anche se è giorno.
La ciabatta rosso fuoco raschia sulla superficie di cemento.
Ne ha una sola, l’altra gli è stata rubata, ma è fermamente deciso a riprendersela.
A qualunque costo.
Non avrebbe mai pensato di arrivare fino a questo punto, ma gli eventi alle volte non si controllano, semplicemente ci sfuggono di mano.
Anche a Ramirez sono sfuggiti di mano, e la situazione in cui si è venuto a trovare lascia aperte ben poche possibilità.
Perire arrendendosi o perire combattendo, questo è l’interrogativo.
Perché sempre di perire si tratta quando sei solo contro cinque energumeni armati di scope.
Ma lui è stato addestrato a questo, sa perfettamente a cosa va incontro.
Sei anni passati in Fundacion Don Bosco ti cambiano dentro, nella testa, ti insegnano ad diventare un guerriero.

Indietreggia lentamente, senza perdere d’occhio i suoi avversari.
Si avvicina alla porta del bagno, passo dopo passo, ha un piano in mente, un’ancora di salvezza che forse potrebbe fargli guadagnare un po’ di tempo.
Accenna ad un sorriso, una sorta di ghigno furbesco, di sfida, si sta rendendo conto che non tutto è perduto.

Gli attaccanti sbraitano e ridono, si sentono superiori, i due più grossi fanno roteare le scope sopra la testa.
Daniel, il più basso, fa schioccare sul pavimento un asciugamano da doccia azzurro alzando tutto intorno nuvole di polvere.
José, intanto, minaccia con un cestino della spazzatura pieno di carta igienica sporca di cacca.
Arma biologica di distruzione di massa, non coperta tra l’altro dall’assicurazione del Servizio Civile, svelto mi sposto un po’ in disparte.
Antor lo zoppo ha recuperato chissà dove un ramo verde con annessa foglia di banana e lo maneggia come un fioretto. Farebbe tremare le gambe a Dartagnan.

I cinque sono decisi a chiudere la questione in fretta, hanno giocato abbastanza con la loro preda.
Incalzano Ramirez con i manici di scopa, se riescono a spingerlo nel bagno per lui è finita.
Improvvisamente urla sguaiate si alzano dal gruppo, la furia del combattimento cancella ogni parvenza di umanità, asciugamani, spazzoloni e foglie di banana si confondono nel guazzabuglio di corpi.
Ramirez come un felino salta oltre la soglia del bagno, sa che ha lasciato qualcosa per terra dopo aver finito le pulizie giornaliere.
Seconda porta a destra, sbatte contro il metallo nero, scivola sul pavimento bagnato, gli altri gli sono addosso.
Con un calcio al ginocchio fa capitolare il grosso Richard, riesce ad allungare la mano, basta solo un poco di più…
Un ruggito animalesco fa tremare il tetto di lamiera.
Colti dal panico i cinque aggressori si scavalcano pestandosi per cercare salvezza all’esterno della stanza.
Ramirez è riuscito a mettere le mani sull’unica arma capace di sconfiggere un esercito intero senza alcuna fatica.
Lo straccio sporco con cui ha pulito i gabinetti.

La battaglia ora è finita, l’aria fresca spazza via l’odore del combattimento.
Sul terreno per oggi non rimangono corpi, solo le armi abbandonate dai contendenti.
Si è profilato un nemico peggiore all’orizzonte e bisogna unire le forze per contrastarlo.
Ha varcato la soglia il maestro di matematica.

11 March, 2009

Rotta al Salto Angel

Sono le 7 di sera e il terminal degli autobus di Merida è affollato come al solito. Questa volta però è anche pieno di tedeschi con lo zaino in spalla e i sandali con le calze.
Io Taiko e Sara siamo diretti a Ciudad Bolivar, nella parte orientale del paese, per andare a fare conoscenza con il Salto Angel, la cascata più alta del mondo, e per passare un paio di giorni a grattarsi i piedi sotto le palme nel ridente paesello di Santa Fe.
Sono circa 26 ore di viaggio in autobus, ma questa volta ho caricato il l’iPod, mi sono lavato i denti prima di uscire di casa e ho portato la copertina per combattere contro l’aria condizionata.
Parto fiducioso
Dopo circa 10 minuti di viaggio la giapponese inizia ad annaspare tra i sacchetti di plastica sotto i sedili.
Ne viene fuori che grazie alla ferrea organizzazione nipponica a cui è stata abituata fin da bambina ci ha preparato la cena.
Apro il contenitore di alluminio e ci scopro, in sequenza, riso, verdurine e tocchetti di pollo arrosto.
Ancora caldi.
Nella busta ci ha messo il tovagliolo, la forchetta e il coltello. E poi la torta allo yogurt.
Un indescrivibile odore di cipolla inizia a espandersi tra i sedili. Il primo commento mi arriva dalla mia vicina di sinistra. Poi si volta quello davanti a vedere che succede, poi quello lontano due sedili, ciccione, inizia a far battute interessate in cui ci chiede se ce ne cresce un po’anche per lui.
No, è mio! La prossima volta conosciti il tuo giapponese personale.

Arrivati a Ciutad Bolivar bisogna prendere un aereo. Canaima, l’accampamento di indigeni dove siamo diretti, è in mezzo alla selva e non ci sono strade.
Il diligente addetto al controllo bagagli mi fa notare che nello zaino ho due coltelli, di cui uno a forma di machete, e uno spray infiammabile, che la legge internazionale proibisce di portare a bordo.
Io gli faccio notare che siamo in culo al Venezuela e che il tutto è nel bagaglio da imbarcare nella stiva, come mi hanno sempre insegnato a fare.
E lui a sua volta mi fa notare che il trabiccolo su cui sto per salire non è dotato di stiva.
Ah.
Però se proprio voglio lui può dare tutto al pilota che li mette in una cassaforte e poi me li ridà una volta arrivati.
Ah.
Però il pilota, ancora prima di salire a bordo, mi chiede qual è il mio zaino e ci rimette tutto dentro.
Ah.

L’aereo è un Cessna a 6 posti dotato di una poderosa elica a pedali. Il pilota è un tipo simpatico e parla in continuazione. Gesticola per sovrastare il rumore del motore e a ogni sbracciata lascia il timone e l’aereo si sbilancia verso destra.
Sono esperienze che segnano.
Dopo un’ora di viaggio atterriamo malfermi su una pista di terra battuta. L’aeroporto è una capanna con il tetto di frasche un po’ più grande delle altre.
Un ragazzetto ci corre incontro con un casco di banane.
Ci aspettano 4 ore in canoa, ma il tempo è bello e non ci sono neanche troppe zanzare.
Il mezzo è stato costruito scavando un unico troco di un unico, immenso, albero tropicale. Seduti comodi ci stiamo in 8 più la guida che si chiama Churum e gli zaini.
Il fiume è largo e l’acqua azzurro cielo. Tutto intorno l’immensa foresta tropicale è interrotta solo da delle gigantesche formazioni rocciose, lunghe fino a 50 chilometri, caratteristiche di questa zona: i tepui.
E proprio da questi altopiani che si formano le numerosissime cascate che si possono vedere lungo il tragitto. Le pareti rocciose scendono a picco per centinaia di metri senza incontrare ostacoli e senza la presenza di vegetazione.
Tutta l’area è percorsa da una serie di corsi d’acqua che si intersecano tra loro e sono da sempre stati utilizzati dalle popolazioni indegene come vie di comunicazione tra i villaggi.

Questo è il periodo secco, ma il cambiamento climatico si fa sentire anche qui. Churum ci dice che è la prima volta da quando è nato che si riesce a risalire il fiume nel mese di febbraio.
Vabbé che ha solo una ventina d’anni, però fa impressione lo stesso.
Continuando la risalita il percorso diventa più tortuoso e iniziano a vedersi qua e là dei grossi massi sotto il pelo dell’acqua.
Superiamo tutta una serie di rapide, il guido fa miracoli, noi ci laviamo fino alle mutande ma siamo felici come bambini a Gardaland.
Improvvisamente la canoa si mette di traverso. L’acqua inizia ad entrare dai fianchi, mi volto per cercare la guida e la vedo immersa nel fiume fino alle spalle che tenta di raddrizzare il mezzo.
Dopo 30 secondi di sforzi vani capisce che non ce la può fare.
Tutti giù a spingere!
Lascio la macchina foto a Sara e mi butto in acqua con gli altri ragazzi.
Con la nostra forza bruta lottiamo contro la corrente impetuosa.
3…2…1…spingere!!!!!!!
Niente di niente, siamo incagliati con i fiocchi questa volta. O forse il problema è la nostra forza bruta…
Riproviamo e riproviamo, già inizio a pensare a cosa posso salvare dallo zaino prima che il fiume se lo porti via per sempre.
Ci sarebbero quelle mutande a quadretti…..
Improvvisamente da dietro un’ansa spunta un’altra canoa, ci vede e fa rotta verso di noi.
Saltano tutti giù per aiutarci, la solidarietà fluviale, agguantiamo l’imbarcazione e….vai che si muove!
Anche per questa volta le mutande sono salve.
Arriviamo a riva stanchi morti, ma la Churum come per magia tira fuori una cassa di birra da sotto un telo.
Ahhhhhhhhh, che soddisfazione.
Dopo poco ripartiamo. Un’altra ora di navigazione, un paio a piedi, e...
…937 metri di caduta libera.
Il Salto Angel, la cascata più alta del mondo.
L’acqua è fredda, ma un bel bagno non me lo toglie nessuno.